Sylvie Romieu nasce nel 1960 a Sigean, vive e lavora a Portel des Corbieres in Francia. La prima mostra personale della fotografa francese presso la galleria Weber & Weber di Torino è stata allestita nel 2005, a seguire le personali del 2008, del 2012 e del 2015. Ai loro esordi pochi artisti affrontano per esercizio o come tematica, la sfida di descriversi, e soprattutto quella di rappresentarsi dipinti: diverso è il caso di Sylvie Romieu. Probabilmente è vivo nella maggior parte degli artisti il timore che l’inevitabile immagine dello specchio rifletta solo una giovinezza che si mette alla prova ma non ancora l’intimità di un mondo già affermato, essi dipingono, o disegnano, per offrire agli altrui sguardi dei paesaggi, degli oggetti, delle mistificazioni visive, senza mai calcolare che, in realtà, essi non producono altro che delle brutte illusioni, delle maschere maldestre dovute alle loro incertezze. Le presenze di adulti e bambini spesso mescolate, con parentele reali o inventate, paesaggi, abitazioni familiari, ritratti impostati, rinnegati, graffiati sono una costante nell’opera di Sylvie Romieu, un altro aspetto che ritorna è il territorio che delinea la coscienza che possa accaderci di guardare qualcosa di bello con l’idea che ciò possa nuocerci: il percorso dell’artista è probabilmente influenzato da un processo di lutto, o più probabilmente da un processo di lutti accumulati. Nelle opere di Sylvie il movimento è in realtà ascendente, svolto a spirali, a ondate successive, il centro è davvero sempre sospeso, mobile è una spinta che forza la nuvola di immagini verso un percorso a spirale. Il tema del ritornello, ovvero il venire incessantemente alla fonte per poi ripartire, ritornare e ripartire per rielaborare percorsi diversi, inventarsi nuove espressioni per qualcosa di antico, rielaborare senza fine il passato. Sylvie Romieu sa che l’arte non consiste nel riprodurre categorie: l’arte non è pensiero né sogno puro, ma è quel buio, o quella penombra, che apre alla veggenza. Sylvie in alcuni intensi autoritratti si nasconde il volto con le due mani, oppure rovescia l’immagine sconcertata del proprio volto, capovolgendola, o ancora, in senso ancor più araldico, quasi da allegoria medioevale, pone al centro della scena, un libro semichiuso. Tutta una pluralità imprevista circola all’interno di un volto. Nei lavori del 1998 l’artista riprende l’ambiguità del nero e del bianco, quella tra il cane e il lupo che marca il terrore dell’infanzia, le figure adulte, per lo più donne, ostenta poi la volontà di costruire una centralità nel suo riordinare, che l’artista organizza, irradia e sistema: tale centralità, che è sempre una figura di donna esibita o nascosta per metà, come dietro le mani è evidentemente un’affermazione di identità.