Bogdan Koshevoy (Dnipro, 1993) giovane pittore figurativo e visionario al contempo, presenta un nuovo ciclo di opere che costituisce il naturale prosieguo della sua ricerca attorno all’architettura e al paesaggio. Infatti, i protagonisti prediletti dall’artista di Dnipro sono spesso edifici caratterizzanti le aree interne dell’Ucraina, costruiti lungo tutto il corso del Novecento e lasciati poi in abbandono o demoliti intenzionalmente dopo la fine della dominazione sovietica. Pur rimanendo saldamente ancorato ad una rappresentazione d’ispirazione realistica, Koshevoy ci mostra paesaggi dagli echi fantastici, a tratti mitici, certo non privi di elementi disturbanti, talora grotteschi. Nelle opere in mostra l’atmosfera è perlopiù pervasa da un senso di inquietudine che accompagna la rivelazione di tragedie appena avvenute, colte altrimenti nel momento stesso in cui esse si compiono, se non l’annuncio di vere e proprie catastrofi. Mai del tutto disabitati, questi luoghi accolgono e rigettano a più riprese una vasta fauna umana e zoologica, un catalogo di presenze sopraffatte da lotte, agguati, scoperte inattese, mutazioni, oppure, dove la portata degli eventi acquisisce dimensioni più epiche, da fenomeni atmosferici e astronomici dalle conseguenze inarrestabili.
Da un punto di vista identitario, Koshevoy ama definirsi come il frutto di un intreccio di culture, un connubio di influenze ben esplicato dagli eclettici edifici ucraini la cui storia, secondo l’artista, non è mai stata sufficientemente studiata e valorizzata. Partendo dai relitti dell’età zarista per giungere a quanto lasciato in rovina durante la crisi economica seguita al dissolversi dell’URSS, Koshevoy rende un personale e accorato omaggio a intere pagine di architettura destinate alla damnatio memoriae, una stratificazione emblematica di stili e fasi politiche dal valore spesso controverso. Ci rendiamo poi conto che, spesso, niente è esattamente come appare: Tower, ad esempio, non è altro che un serbatoio idrico dall’aspetto inusualmente elegante agli occhi degli occidentali, mentre il carro sullo sfondo riprende fedelmente un giocattolo di propaganda sovietica passato di generazione in generazione, fino ad essere raccolto dalle mani del pittore. Ai serbatoi seguono altrettanto solitarie magioni, fabbriche mai del tutto dormienti, parchi divertimenti malinconicamente proiettati nel futuro (Zvezdnij Teleport, 2022), mentre prevale il calore del mattone e non mancano finestre illuminate, ancor più sorprendenti nel momento in cui suggeriscono scene da racconto giallo alla Agatha Christie (A murder in the blue house, 2022).
Tutt’attorno si dispiega una natura lussureggiante, a tratti esotica, spesso sconfinante in praterie d’un verde accecante, cui si alternano tonalità più polverose, fino a rappresentare gli esiti di una vera e propria apocalisse indeterminata nel tempo e nello spazio (Solitude, 2023), dove scheletri di epoche geologiche e specie diverse emergono dalla terra riarsa, magra consolazione per l’avvoltoio sullo sfondo, unica creatura eletta ad una, seppur breve, sopravvivenza. Da sempre affascinato dal mondo animale, Koshevoy ha già mostrato in opere precedenti l’idilliaca convivenza tra creature considerate estinte ed esseri umani (come si può vedere in Cretaceous Utopia, 2021), quasi un possibile risvolto utopico di quanto prefigurato nel film muto The Lost World (Harry Hoyt, 1925), immaginando un equilibrio tra specie e civiltà altrimenti incompatibili. In queste nuove opere, invece, la presenza animale si fa perlopiù sinistra, se non antagonista, facendo precisi riferimenti alla simbologia naturale nella storia dell’arte occidentale: ad esempio, la scimmia è frequentemente associata al demoniaco (Encounter with the pink demon, 2022), mentre il coniglio può rimandare ad una sessualità sfrenata.
Il paradiso si fa sempre più corrotto e in fiamme (Invasion, 2022), mentre le viscere della terra si aprono su dimensioni sconosciute (Out of curiosity, 2023). Stando a quanto affermato dallo stesso artista, la steppa totale dell’Ucraina viene trasfigurata al punto da diventare non solo un luogo mentale turbato dall’inconscio, ma un vero e proprio spazio della memoria. Nonostante il loro destino avverso, le architetture di Dnipro si trasformano a loro volta in un simbolo, un autentico punto di riferimento per la vita di Koshevoy, il quale ha scelto Venezia, da sempre considerata la porta d’Oriente, per proseguire prima gli studi e poi la carriera artistica: il luogo ideale per iniziare a scoprire il mondo e, al tempo stesso, riscoprire sé stessi. .